L’araba Fenice

Ore 18, rumore assordante di un aereo a bassa quota. Sguardo fisso al cielo, il primo boato. Lo stupore degli infermieri all’ingresso del Geitawi Hospital. Poi il secondo boato, più forte del primo. L’onda d’urto mi spara in aria, atterro sul letto, tra le lenzuola ancora sfatte dal mattino. Sono trascorsi secondi, forse minuti, sembravano ore. Istanti eterni, impressi nella memoria. Apro gli occhi, mi sollevo e mi trascino oltre i detriti, fuori dalla stanza. Afferro l’asciugamano blu, anche Linus avrebbe fatto lo stesso. Il telefono è fuori uso, le linee sono interrotte. Mi guardo attorno, la porta è fuori dai cardini. La finestra della stanza di fronte è esplosa sul letto nella stessa posizione supina in cui sono atterrata io.

Le urla di terrore sono più forti del suono delle autoambulanze del Geitawi Hospital che soccorrono impazzite i sopravvissuti all’esplosione. Il telefono riprende a funzionare impazzito. 
“L’hai sentito?”, “Stai bene?”, “è successo a pochi metro da casa mia”, “Anche a pochi isolati da casa mia sembra sia scoppiato qualcosa”, “Pare sia scoppiato il porto”, “L’ho appena letto su twitter, non si sa ancora cosa sia successo”, “A casa mia sono saltate le finestre”, “Non ti muovere, Claudia che era in strada si è ferita ad una gamba”, “Pare sia un incidente, ma non ne sono sicuro”, “C’e’ un fungo in aria, sembrano fuochi d’artificio colorati”. 

Non so come, mi ritrovo con una scopa in mano. Inizio a pulire, elimino le tracce, rimuovo lo sporco, isolo i vetri rotti da tutto il resto. Le ore successive, immobile sul divano. L’unico posto sicuro. Fuori dalla finestra, sembra l’apocalisse. Sangue, feriti e urla in tutte le lingue del mondo, o forse una sola: quella del terrore.

“Dove sei? Karl torna a casa, please.” 
“Come stai?” “Non lo so”.  Non riesco a pensare, non riesco ad essere lucida e decidere. 
“Dobbiamo andarcene adesso. Sei sotto shock. Meglio allontanarsi da Beirut per qualche giorno. Non sappiamo cosa può succedere oltre.”
“Non so se riesco a guidare, aspettiamo faccia luce e poi andiamo via.” 
Immobile, ferma. Il divano è l’unico posto sicuro.
“Prendi quello che ti serve per andare via in montagna per qualche giorno, io nel mentre sistemo la porta.”
Passano due ore, Karl mi trascina fuori dall’inferno. Ho preso la mia vita e l’ho caricata in macchina.
“Prendi anche quella busta!”. La apre, con faccia sconvolta e i vetri intricati ancora tra i ricci, ride: “Una pesca e una banana rientra nel minimo indispensabile per una fuga?”
“Metti che per strada ci viene voglia di frutta?”
“Già che ti trovavi, potevi portare il caffè e la moka per domani mattina”. LOL

La macchina è in strada, una delle poche integre, illesa anche lei. Ci porta lontano dalla nube tossica.
Scappati.

Qui di notte si vedono le stelle e si sentono i lupi, i galli e gli uccellini di giorno. Peaceful.
Come sto? Meglio..

Domenica 9 Febbraio 2020 arrivo a Beirut. Settimane di estrema normalità a febbraio, poi la bancarotta e la svalutazione della moneta a marzo; il lockdown ad aprile; la ripresa delle rivolte e la crisi energetica a maggio; la crisi alimentare di giugno e il secondo lockdown a luglio. 
Sono 6 mesi che Beirut è la città in cui vivo. A Geitawi vai a fare la spesa, Mar Mickael vai per l’aperitivo e Achrafieh a cena, per passeggiare e guardare il tramonto vai sulla Cornice. 
4 agosto ore 6.06 del pomeriggio rientro a casa ad Achrafieh, apro la finestra della stanza. Poco dopo un’esplosione, la numero 3 al mondo per intensità ed impatto, che ha disintegrato l’anima e il corpo dei quartieri in cui ho vissuto. 
Domenica 9 agosto 2020 lascio, tra le lacrime, Beirut. Meno di 6 giorni.

Sono solo numeri e coincidenze, Ritornerò presto.

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