Tre donne, tre Paesi, una rivoluzione. Sono i protagonisti del documentario “I am the Revolution” diretto dalla giornalista indipendente Benedetta Argentieri. Rojda Felat, Yanar Mohammed e Selay Ghaffar sono le tre donne mediorientali in lotta per l’uguaglianza di genere. Siria, Iraq e Afghanistan, rispettivamente i teatri in cui ogni donna compie scelte diverse dall’ordinario e dal contesto sfavorevole in cui si trovano. L’obiettivo? La rivoluzione.

Rojda Felat è diventata in pochi anni il comandante in capo delle Forze Siriane Democratiche, l’alleanza tra milizie curde e arabe sostenute dagli USA che ha sconfitto ISIS nel Nord della Siria e riconquistato Raqqa. È una donna che comanda 60mila uomini e donne armati, praticando una parità di ruoli e diritti impensabile in qualsiasi altro esercito.

Yanar Mohamed organizza attraverso dei rifugi per donne in fuga dalla tratta, da violenze familiari e dalla prostituzione “un piccolo esercito di schiave pronte a combattere fino in fondo per i diritti delle donne”. La sua attività, illegale in patria, è riconosciuta dall’Onu.

Selay Ghaffar è la portavoce del partito della Solidarietà dell’Afghanistan, unico partito laico e progressista del Paese e l’unico con una leader donna. Ha passato la sua vita a educare le donne e lottare per la loro indipendenza, ora cerca di trasferire questa esperienza ovunque.
“Per anni, prima di cominciare a fare questo film – mi racconta la regista Benedetta – ho viaggiato in queste zone come giornalista e mi sono resa conto come i media raccontano le donne: sempre e comunque vittime. Ritratte in campi profughi, con bambini, in attesa di un salvatore. Invece io avevo conosciuto molte altre donne che lavoravano per costruire un presente e un futuro diverso. Donne forti che aiutano altre donne ad emanciparsi”. Non è un caso che la Argentieri abbia deciso di circondarsi di donne per vivere questa esperienza e lavorare con lo stesso approccio e punto di vista. Se dietro la macchina da presa c’è un’altra donna, è facile guardarsi negli occhi e riconoscersi.
Quali immagini porti dentro con te dopo quest’esperienza?

“La forza e il coraggio di queste donne, di tutte le donne che ho incontrato in questo lungo viaggio, e non solo delle protagoniste. Vivere come donne in quelle zone è difficile, a volte difficilissimo. E ho una profonda ammirazione per chi sceglie, ad esempio, di studiare nonostante il divieto semi-formale della società, per chi sceglie di togliersi il velo. Per chi cerca la libertà. A volte i piccoli gesti sono i più rivoluzionari. Ma per chi crede che quei mondi non ci riguardano, si sbaglia. I diritti delle donne sono sotto attacco dovunque. Dall’America all’Irlanda, passando per l’Italia. Basta poco e ci si può ritrovare in una condizione per cui i diritti considerati acquisiti vengano cancellati o modificati. Tutti i diritti devono essere protetti e preservati, mai considerarli come acquisiti”.
Hai ricordi di profumi, suoni, odori che caratterizzano le particolarità di quel mondo e che non hai visto in nessun altro luogo?
“Credo che l’Afghanistan sia uno dei posti che mi ha colpito di più. Uno dei Paesi più belli che io abbia mai visitato per la vista del paesaggio e dei colori: così affascinante che ti strega. La sua bellezza è, però, in forte e stridente contrasto con la violenza palpabile che ritrovi nelle strade e negli occhi delle persone. Una situazione così evidente l’ho trovata solo lì. Girare questo film è stata un’esperienza unica nel suo genere, è difficile scindere le situazioni, le persone o gli episodi per racchiudere in un singolo concetto la molteplicità delle esperienze vissute.”

Durante le riprese hai avuto dei momenti catartici che ti hanno fatto vacillare sulla decisione presa?
“Nonostante il contesto difficile in cui abbiamo lavorato, non ho mai pensato nemmeno per un momento di abbandonare questo progetto. Era troppo importante non solo per noi, ma per le donne e i movimenti che abbiamo deciso di raccontare. Ho vissuto un momento tra i più critici: il 25 aprile 2017, la Turchia ha bombardato la base di Qaracho, a Rpjava, in Siria. Noi eravamo in viaggio verso quella direzione e abbiamo visto gli aerei passare sopra le nostre teste e sganciare le bombe a meno di un chilometro. Sono morte 22 persone. È stato terribile.”

Al momento dei saluti, Benedetta mi lascia con una storia a lieto fine alla quale sta lavorando. Si tratta di una graphic novel che racconta la storia d’amore tra una giovane ragazza marocchina e un giovane conosciuto online. Lei spera di andare a vivere a Londra con lui e poter allo stesso tempo continuare gli studi mentre si ritrova nello Stato Islamico.
Sembrano storie lontane, ma sono attuali. Lo scorso maggio è stato l’Equal Pay Day e Forbes ha pubblicato il valore della diversità che, ancora oggi, esiste tra uomo e donna in America Latina, negli Stati Uniti, in Europa, nel mondo.

É del 2017 il movimento virale #metoo che ha dato il via ad altre campagne di awareness fundraising come #cuentalo, Time’s Up, #heforshe che vede impegnati uomini oltre che donne nell’affermazione dell’uguaglianza di genere e nella lotta ai diritti umani.
Perché è di questo che si tratta, sempre, di umanità.
human thing no female or political thing