
“Hai da accendere?” Mi chiede, mentre le immagini mi scorrono rapide in testa.
“Cosa ne pensi del film?” Ho, ancora, la pelle d’oca.
Rwanda racconta una delle più grandi stragi consumate in Africa nel XX Secolo, che ha visto la morte di 800 mila persone in 3 mesi; è tratto da una storia vera e dal lancio della campagna di crowdfunding, il film ha raggiunto oltre 70 città italiane; dopo la prima a Venezia lo scorso 1 settembre, il film atterrerà sugli schermi di Parigi, Phoenix e Los Angeles; il 14 marzo è stato confermato il sold-out alla 13esima proiezione in 5 mesi.
Il regista (Riccardo Salvetti ndr.) ha fuso il linguaggio cinematografico con quello del teatro d’inchiesta; ha scelto di inserire due attori italiani bianchi al posto dei due protagonisti ruandesi; il set del film è diventato un laboratorio di integrazione e cooperazione, coinvolgendo 480 uomini e donne provenienti da 24 paesi dell’Africa Centrale, tra cui il Ruanda.
Alla fine della proiezione gli applausi sono durati 15 minuti.
Ho, ancora, la pelle d’oca.
Il weekend del 14 marzo Bologna ha ospitato il Cosmoprof, la fiera internazionale dedicata all’estetica, alla cura della persona.
Lui, che mi chiede cosa ne penso del film, era venuto da Milano per promuovere il proprio brand e, tra gli stand rossi della fiera, conosce per caso uno degli attori protagonisti del film, Aaron. Aaron lo invita all’Antoniano alla prima e unica data Bolognese del film Rwanda.
Sorrido, penso alla serendipity degli incontri di cui ogni giorno siamo protagonisti.

Rwanda racconta il genocidio della minoranza etnico-sociale dei Tutsi massacrata, a colpi di machete e armi da fuoco, dagli estremisti appartenenti agli Hutu, il gruppo sociale maggioritario.
Augustin Maniriho è un giovane operaio Hutu. La moglie è Tutsi e si chiama Jolande, e la figlia Monique ha 6 anni. I matrimoni misti erano permessi e i figli avevano diritto di scrivere sulle proprie carte d’identità l’appartenenza alla razza, superiore, degli Hutu.
Cecile Hakizimana è una giovane maestra Tutsi di scuola elementare. Ha un marito, Paul, e una bimba di 4 anni di nome Sophie. Cecile adora il suo lavoro ed è certa che prima o poi realizzerà il suo sogno nel cassetto: pubblicare un libro di favole per bambini. In quella primavera di sangue, che si abbatte sul Ruanda nell’aprile del 1994, un nome e un cognome però non bastano e a nessuno importa ciò che ami e come si chiamano i tuoi figli. Ciò che conta davvero è quanto compare sul tuo documento d’identità alla voce: razza.
Se c’è scritto Hutu devi uccidere, se c’è scritto Tutsi devi morire.

Durante il genocidio in Ruanda le vittime furono prevalentemente di etnia Tutsi, corrispondenti a circa il 20% della popolazione, ma le violenze finirono per coinvolgere anche gli Hutu moderati, appartenenti alla maggioranza del paese, quelli che proteggevano i Tutsi o che facilitavano la loro uscita dal Paese. L’odio razziale era stato alimentato a partire dal 1926, quando l’amministrazione coloniale Belga, trasformò una differenziazione socio-economica (gli Hutu erano agricoltori, i Tutsi allevatori) in una differenza razziale basata sull’osservazione dell’aspetto fisico e su una presunta superiorità razziale. Nel 1990 il Paese, fino ad allora definito la Svizzera Africana per il periodo florido e di stabilità economica in cui riversava, vive uno dei momenti di crisi economica più forti degli ultimi tempi. Le famiglie fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, la disoccupazione è a livelli record, il pil collassa così come la moneta locale. La propaganda locale punta il dito contro il diverso, che in quel caso è il vicino di casa o il compagno di banco che ha sulla carta di identità la classificazione Tutsi.
“Vuoi conoscere Aaron?” Accetto.
Entriamo, gli stringo la mano e lo mando a quel paese, con eleganza. Aaron interpreta Emily, il capo dei miliziani. Quello che inizia il film con un machete e porta avanti con maestria il ruolo del cattivo in un crescendo di sangue, rabbia, crudeltà e morte.
Mi ringrazia, sorride e mi risponde Mo ge yhe noche in ghanese è l’equivalente del mio benvenuto iniziale.
Aaron ha 30 anni, è originario di Accra e vive in Brianza da quando ha 9 mesi. Ha la fortuna di essere frutto della fusione di due culture importanti, in modo da complementare le mancanze dell’una con la ricchezza dell’altra. Nonostante il cognome, che ricorda quello di un divo americano, è nato e cresciuto da genitori ghanesi che continuano a parlare la lingua madre adangme e a mangiare a cena banku, in concorrenza alla polenta d’oltralpe.
Sceglie l’arte per passione: studia grafica, fotografia e frequenta l’accademia delle belle arti di Brera. Sceglie il cinema per la curiosità che ha di immedesimarsi nei panni dell’altro diverso da sé; perché affascinato dalla psicologia che si nasconde dietro i vari personaggi; per le emozioni che prova ogni volta che si ritrova a calarsi in un contesto diverso.
La serendipity lo porta nel 2015 a conoscere Michael Rodgers, con lui inizia un percorso nuovo e illuminante per la sua carriera. Studia intensamente, tra alti e bassi trova la sua strada.
Quella del cattivo, suggerisco.
“Non è andata propriamente così” ci tiene a sottolineare Aaron: ha fatto il provino per il ruolo di Paul. Mentre era in attesa di ricevere risposta dal provino per Rwanda, preparava contemporaneamente altri due lavori in cui recitava la parte del cattivo. Con Rwanda voleva sperimentare qualcosa di diversamente impegnativo da un punto di vista emotivo, e invece Riccardo (il regista ndr.) ha scelto per lui.
“É stato molto challenging. In due settimane ho studiato intensamente per riuscire ad entrare nella psicologia di un capo miliziano.”
Aaron Maccarthy
“Quale è stata la sfida più difficile da dover affrontare?” gli chiedo.
“Arrivare a sgozzare una persona. Difficile è stato rendere giustizia al personaggio e interpretarlo senza giudizio. Nel momento in cui mi sono reso conto che stavo vivendo la parte, ed ero completamente dentro con tutto me stesso, ho vissuto un momento catartico. Dopo aver corso tra i campi forlivesi e le acque del fiume che si tingevano di rosso, c’è voluto del tempo per elaborare il post scena”
Si ferma. Gli do il tempo di respirare, prima di passare all’ultima domanda.
Mi dice, sereno, che la cosa bella di quest’esperimento è il rapporto umano che si è creato all’interno del set. La cosa preziosa, dietro le quinte di un film come Rwanda, è l’opportunità di conoscere e vivere con persone che direttamente, o attraverso la voce di altre storie, hanno vissuto quei momenti intensi. Sono le persone e la cura delle loro intime relazioni a dare valore a tutto il resto.
Historia magistra vitae, parafrasando Cicerone. Crimini che si concretizzano in azioni folli come: svegliarsi, andare in giro ad ammazzare altri esseri umani, tornare a casa, mangiare un piatto caldo e andare a dormire, sono atti che accadono ogni giorno in qualche parte del mondo.
La storia di Augustine e Cecile, i due protagonisti, superano le barriere spazio temporali e diventano un messaggio di pace, integrazione e resistenza che può essere lanciato dal Kosovo alla Cambogia, dalla Bosnia al Congo, dall’Argentina all’Uganda. La storia, alla base del film Rwanda, è un grido d’accusa contro tutte le violazioni dei diritti umani presenti, ancora oggi, ovunque nel mondo.